PAROLE D’ESTATE
ANDREA
(Essere vagamento umano)
Sudano le pareti, sudano i pensieri. Il ventilatore gracchia come un vecchio tossico, l’aria è spessa, un brodo marcio di zanzare e asfalto fuso per chilometri sulla provinciale. Seduti nudi sul divano, pelle incollata alla similpelle, occhi puntati sul TG delle 20, una birra calda che era calda già dal frigo tra le dita gonfie paonazze. Ogni sera il morto, la morta, i morti. Dettagli di vita privata. Foto di sconosciuti famosi con la cinta stretta, la lingua fuori, i piedi nudi sull’erba, i sorrisi dei 5 metri sottoterra. Ritagliano articoli, li incollano, vittime dei quindici minuti di celebrità, ma i veri protagonisti non lo sanno. Le notti si dorme, solo replay mentali delle immagini viste, delle frasi dette. Non è paura, è cupidigia. I vicini ridono grigliando. Il sudore cola nella schiena, le mutande appiccicate come una seconda pelle punita. Odore di limone. Un giorno, al telegiornale, c’è una vecchia che indica una foto sfocata, gli occhi persi nel ricordo: “ÈSTATE LUI”.
ESTHER BONDI’
(Autrice e Disperata)
La mia tazza posa dove quando come non ci pensavo proprio, alla tazza, c’erano solo alberi scuri pieni di mocciolo e il vento ne stava in mezzo contento. La mia tazza era dunque a casa e io non ci pensavo.
L’erba quella morbida rideva della mia schiena e delle formiche e guardandomi intorno le persone erano mute, ed io sola in mezzo a loro.
I personaggi del parco stavano come cespugli e fontane, direi forse però meno contenti, e questo un po’ mi dispiace. Si stava tutti soli, che altro non può essere se non questo, ed ero anche io, in fondo, tranquilla.
Era, in fondo, un altro unico ennesimo pomeriggio prima dell’estate.
SIMONE BRIZZI
(Metà Illuso e Metà Disilluso)
L’FBI ha determinato che nel periodo estivo si uccide fino al 20% di più, Adolphe Quetelet, astronomo, matematico e sociologo belga nell’Ottocento la chiama “legge termica del crimine”. La calura accorcia la pazienza, il senso di controllo. O forse è solo la noia.
Guardo il mio corpo nudo allo specchio: non è pronto per l’estate. Nelle fasi di grassezza maggiore il petto cresce e mi vengono un po’ di tette. Una volta all’università uno mi ha preso in giro fino a toccarle e la seconda volta che lo ha fatto gli ho dato una testata in bocca. Era estate.
Ricordo un agosto a Milano, rinchiuso in un bell’appartamento all’ultimo piano zona Brera. Bagnavo le piante, nutrivo un gatto certosino con filetti di merluzzo o nasello. Mi guardava con aria sospettosa prima di mangiare. Ora so che percepiva la mia accresciuta tendenza al crimine.
D’estate nell’aria non c’è tensione. Un bambino attraversa la strada coi sandali di plastica. Sono sceso a prendere la metro a Moscova. Sul vagone una signora ha detto “Con sto caldo qualcuno ci lascia la pelle” e mi ha guardato come se sapesse che lo pensavo anche io.
GEGIA COLLETTINI
(Antifascista internazionalista)
Potrei non reggere la botta di questa felicità che improvvisamente fa capolino e poi rimane.
Parole misurate, di quelle che faticano a uscire ma devono arrivare e diventano allora fitte fitte e scivolose.
Poi tu hai detto: ci stiamo giocando il mondo a carte. E io ho pensato: hai ragione.
Questa partita non la vinciamo né io né te.
E mentre la calura estiva allenta la morsa su Roma e la dipinge di ocra, guardo gli stormi che si imitano dando vita allo spettacolo delle forme mobili che si arrestano.
E penso:
Quando le mani artritiche non riusciranno più a rollare smetterò di fumare.
CLAUDIA ZANARDI
(Chiacchiere e Rumore)
D’estate diventano tutti più stupidi.
L’estate condona aberrazioni che l’inverno, più marziale, mette a tacere a bastonate: musicaccia molesta, fritto ovunque, flirt con il melanoma, sfacciataggine interpersonale.
Però io amo l’estate, che ci devo fare. Così vado al cimitero.
Ci sono tante cicale che stridono isteriche. La ghiaia è croccante sotto i miei passi. È bianca come la luce.
Raggiungo la mia panchina in sasso preferita, all’ombra di un cipresso.
Le vecchiette svettano arzille nel labirinto di tombe. Una, grossa grossa, indossa un velo color vinaccia, un vestito in pizzo nero e delle scarpe consumate di pelle marrone. Ha degli occhiali da sole grandi ed eccentrici come la sua bella faccia antica. A passi lenti ma sicuri, va a riempire l’annaffiatoio verde. L’acqua scorre svogliata mentre lei si terge il sudore dalla fronte con un fazzoletto bianco. Sospira. Mi ricorda mia nonna. Poi mi passa accanto e mi sussurra “buon pomeriggio”. Faccio un cenno con la testa e riprendo a leggere. Conficco una cannuccia nel mio brick di estathè rigorosamente al limone.
Il cielo è bianco d’afa e le cicale continuano a strillare.
SILVIA PAOLUCCI
(Nomade semantica)
Era nata in un giorno d’agosto e la sete di sole non l’aveva mai abbandonata.
Le piaceva dormire a lungo, senza remore, come si fa la domenica.
Un vizio che, dicevano, si portava dietro da sempre.
Un lusso che ora si concedeva anche in settimana, in pieno giorno, a ore sconvenienti.
Questa non sarebbe stata un’estate come le altre, lo sapeva bene.
Come poche volte nella vita si sentiva sul binario giusto e i binari giusti regalano la certezza di non essere fermi, anche se si dorme fino a mezzogiorno.
Ma c’è un rischio: si va dannatamente veloci.
Coincidenze programmate, orari da rispettare, e una meta precisa.
Lei, invece, quel viaggio tanto atteso voleva goderselo senza ansie —
come un regionale che fa tutte le fermate.
Un treno un po’ sonnolento, come lei, che andava verso il sole.
Una destinazione bellissima e non precisata,
al quale presto avrebbe dovuto dare un nome.
TERESA GUALTIERI
(Terrona Rediviva)
Estate nuda e bollente
Selvaggia spiaggia iridescente
Brilla il mare all ́orizzonte
Fa l’amore il vento con le onde
Un alito di salsedine
M ́invade e mi travolge
Ancorata ad un sospiro
Lascio tutto e respiro.
Sogno di notti d’estate
Tra falò, fuochi e cieli scoppiati
Basilico nei vasi e pomodori pelati
É profumo d’estate e di melanconia
Con cura rammendo l’Anima mia.
É magia o alchimia?
Tramuto in oro la nostalgia.
Morendo di meraviglia e stupore
Risplendo con il mio sud nel Cuore
MARKUS RØDT
(grafiabruttaedisordinata)
Giorno 36 dall'incidente
Penny snasa l'erba secca. "Su, è tardi". Che mangio stasera? Gazpacho? Solita insalata scondita? Perché pensarci tanto? Sì, pe' capisse, quest'oggi è sadness. Bella l'estate a Berlino - quest'anno meno. Pure domani mi siederò fuori con gli altri, fingerò ipocrita che sia tutto squisito, sorseggerò birre senza alcool, eluderò gli "ancora niente?".
Penny, contenta, ha espulso un castello marrone.
Ci sono anche vantaggi indubbi: no ascelle putride in u-bahn, no piscio secco ad ogni angolo, 3 chili persi già, via le sigarette - aiuta, forse - ha detto Fraudoktorschultz. Covid/Adenovirus/Keine Ahnung. Trentaseicazzodigiorni senza odori e sapori.
PENNY!
Il telefono mi vola dalle mani. Un gatto ha soffiato da una finestra. Dov'è? Mi guardo intorno - per fortuna il sole è ancora alto. Là. Ovvio. Lo estraggo, bleah, è ancora tiepida. Che schifo, che puzz-AH! Neanche pulisco, apro l'app di delivery. Un hamburger, ora. Sto salivando. Sì, pe' capisse, quest'oggi non è sadness.
MICHELE SCACCAGLIA
(autore punk e canotte bianche)
Isole appannate all’orizzonte
Tramonti di polveri sottili
Incessanti canti d’isteriche cicale
Selve etrusche decolonizzate
Pinete senza pini
Geki storditi dal tanfo dei ginepri
Crollano le piante, spente dal calore.
Mille bolle blu alimentate a gasolio
Unicorni made in Bangladesh
Bagnanti plastificati
Gabbiani guasti
Caciucchi e crostini
Insetti sterminati da creme vegane
Pelli scrostate dal sale
Lisce conchiglie orfane di sostanza
Schiamazzi di bambini tra secchielli infetti
Il tuo sorriso tra i monti.
CHIARA BIANCHI
(autrice e ombra gentile)
In cucina, un tacito massacro: frutta disfatta, liquida, sventrata. L’odore dolce e feroce di
acido paralizza te e gli insetti. Le ali incollate alle superfici umide. Il loro ronzio un canto di
morte. Le tue mani affondano nell’anguria. Scavano. La polpa cede con un suono molle,
carnoso. Il liquido rosso cola lento, si apre sul pavimento. Le formiche avanzano, una
piccola armata che segue una scia invisibile. Le osservi.
Caldo denso. Aria appiccicosa. Il tempo si dissolve in gocce di sudore e sangue, lo senti
colare dentro.
Il tuo ventre pulsa. Contrazioni vuote.
Fame.
Il corpo si ritrae. Le tue ossa sono semi duri: premono, vogliono uscire. La tua pelle una
buccia sottile, fragile.
L’estate pretende corpi asciutti.
MARIALUISA MARCHETIELLO
(nerd e pistacchio)
Da qualche parte ho letto che ci vogliono duecento docce per cancellare le tracce di un rapporto sessuale. Se ogni anno ci sono cinquantadue settimane, e facciamo una media di una scopata a settimana e la moltiplichiamo per dieci anni, fanno circa cinquecentoventi. Cinquecentoventi per duecento fa centoquattromila, dice Siri. Ci vogliono cinquecentoquattromila docce per togliermi da dosso dieci anni della nostra storia, per lavare via ogni traccia di te che mi è rimasta sulla pelle. È la prima estate che non siamo più noi, che non andremo al mare insieme, che non pianifichiamo le nostre vacanze come una coppia. Ci sono ottantanove giorni, soltanto ottantanove docce. L’obiettivo è ancora lontano.
ANDREA TRHOTTA
(scrittore, inventore e termite)
Lo sai perché? Te lo dico subito. Era l’estate del ‘92, erano tutti al mare. Io no. Il cielo era azzurro fuoco, il sole era peggio. Parevo un sopravvissuto a un cataclisma, invece ero un figlio di lavoratori dipendenti nel quartiere più lontano dal mare in un paesino di mare, a luglio. Periferia nuova. Intorno solo cantieri e boscaglia. La casa più vecchia aveva meno di dieci anni. Il caldo era un maglione di lana fatto di catrame, l’aria era finita. Decisi di andare a cercare fresco al bosco, alla casetta sull’albero. Arrivando vidi montagne di terra rivoltata che nascondevano il bosco. Corsi più veloce, le raggiunsi e iniziai a scalarle. Sulla cima trovai Stefano in lacrime.
– Sté che è successo?
Cinque ruspe mastodontiche erano parcheggiate vicino a troppi alberi buttati a terra.
– Mio padre dice che ci fanno altre tre palazzine.
La prima pietra che lanciai fece esplodere il parabrezza di quelle bestie.
Poi distruggemmo tutto ciò che potemmo. Imparammo che eravamo schiacciabili.
Ecco perché.
MARIO DE SISTO
(Imprecario)
Sento i suoi piedi nudi, sono anche i miei. Si incollano sudaticci sui marmi di Ottaviano. Si affollano le ansie, soffocano lo spazio tra le tempie, gonfie per l'umidità. La fronte piange. Ogni perla è una sacca della memoria, riverbera sugli zigomi dal vuoto intorno a me. Il nervo ottico, disimpegnato, è il filare nodoso di una vigna, pronto a germogliare ma che, invece, soffoca inconsapevole nell’appiccicume di una tela cerata. Il respiro si fa affannoso. Voci irreali, lame ricolme di congiuntivi scarabocchiano i pensieri. Polpastrelli urticanti che sfiorano il collo e lasciano sfregi, tremolanti tentacoli della piovra bianca. Annusa la preda, grugnisce, pregusta il sacrificio. Zanne sottilissime negli angoli degli occhi. Fauci spalancate mi accompagnano nell’oscurità.
Mi sveglio, sudato e terrorizzato in questa notte di giugno, un lieve tremolio alla mano. “E’ solo un incubo, Karol, Emanuela dorme con la principessa” ripeto come un mantra, finché, finalmente, mi riaddormento.
EMANUELA COCCO
(Scriba macabra)
Anche tu vedrai il corpo della ragazza. In estate, dallo schermo di un telefono, di un televisore, saprai che è stata uccisa. Apparirà di colpo interrompendo la tua cena, ripresa in campo lunghissimo, nascosta da un drappo scuro, in un punto imprecisato del parco. Allora, ti riguarderà almeno un poco. Ora è presto, nessuno l’ha ancora vista. Appartiene solo all’alba e alle ombre e il suo corpo è nudo, completamente nudo, inabissato nell’erba, lì dove è stata abbandonata, a faccia in giù come se nuotasse tra le foglie e gli elastici per capelli, le cicche di sigarette e gli steli. Lo so, capita anche a me. In estate ci prende una specie di nostalgia per qualcosa che non è mai accaduto. Ci passa attraverso in un modo o nell’altro, nei giorni e nei mesi e la teniamo a bada, ma l’estate no, lei torna. L’abbiamo cacciata, in un modo o nell’altro, ma qualsiasi sia il modo ora non funziona più. È per questo che vuoi avvicinarti, sollevare il telo che la nasconde. Lo so perché sono già lì, e voglio scrivere di lei e di noi, appostati dietro la siepe della sua caduta. Tu però aspetta. Non toccare nulla, non osare voltarla. Vuoi vedere il suo viso, lo capisco, vuoi sapere come l’hanno conciata. Non farlo, dammi retta. Non è un bello spettacolo.
GIULIA RENARD
(Volpe dell’Hof)
Estatico momento in cui ci siamo stanati.
Il pelo fulvo nella notte scintillante.
Fin quando rimarrai così caldo a leccarmi?
Pensavo fossi inverno invece eri Estate.
JONAH BLU
(Bambino e Principe delle Balene)
Il cielo sembra l’ombra del mare che è azzurro.
Il sole è come un girasole lucente.
Il paesaggio è come se fosse dentro a un forno.
Le montagne sono ricorperte di verde.
LUCA TOSI
(Ragazzo senza prefazione)
«L’estate, quest’anno, comincia bene se l’Inter perde la Champions» mi ha detto mio babbo.
Lì mi son ricordato che, quand’ero piccolo, nei fatti, l’estate cominciava il giorno che vedevo lui, in camicia azzurra, che invece di prender la macchina, per andare al lavoro, sguainava dal garage la sua Lambretta, azzurra anche quella.
L’inconfondibile rombo scoreggino.
Partiva, e la camicia da subito gli si gonfiava addosso, un continuo innesto d’aria: diventava molto muscoloso. Le volte che salivo con lui, dietro, diretti al mare, non sapevo se tenermici o no alla camicia, c’avevo il timore di sgonfiarla. Non volevo.
Cielo, camicia, Lambretta, mare: un pieno d’azzurro negli occhi, l’estate.
È andata a finire che l’Inter ha perso. Mio babbo s’è gonfiato dalla contentezza, quando mi ha detto: «Come godo».
Di lavorare ha smesso, le camicie azzurre non le porta mica più. Al mare insieme non c’andiamo. La Lambretta l’ha venduta che saran vent’anni.
FEDERICO GOBETTI
(Scrittore, quasi)
Mi sono sempre chiesto cosa provano quelli che si alzano appena l’aereo atterra. Che scattano ad aprire i portabagagli con ansia, come se i trolley fossero stati espulsi in volo.
Oggi ho il posto in corridoio. È la mia occasione. L’aereo tocca terra, slaccio subito la cintura
e quando si ferma sono già in piedi. Mi sale una botta di adrenalina. Sento il potere crescere
in me. Sono una fottuta divinità che vi guarda dall’alto. Apro la cappelliera per primo. Mi
vedete, sfigati? La valigia quasi casca in testa ad una vecchia e cazzomene, la metto a terra
e blocco del tutto il corridoio. Allungo il collo come una giraffa: perché la fila non va avanti?
Volete aprire queste porte maledette? Bella Gigi! urlo al mio amico dieci file più in là. Sono
perfetto. Incredibile. Mentre voi, stupidi plebei, ve ne state ancora pietosamente seduti, noi
siamo in piedi. Ammassati a sgomitare rabbiosi. Usciremo due minuti prima da questo volo,
e vi aspetteremo fieri mezz’ora, sul bus che non parte mai.
MATTIA CECCHINI
(Ostinato e Contrario)
7 maggio 2021, manca poco più di un mese all’inizio dell’estate. Mio padre mi è venuto a prendere all’aeroporto di Fiumicino, stiamo tornando a casa. Attraversiamo l’Umbria, sotto un cielo che è una sconfinata leccata azzurra. Senza manco una nuvola. Tranne laggiù. Quella specie di fumata grigia, una pustola.
Sotto quella fumata un casolare, dentro quel casolare due persone che muiono, mentre altre due vengono tirate via da sotto le macerie. Una di queste è ustionata su gran parte del corpo, e da lì a qualche mese gli amputeranno la gamba. È minorenne.
All’inizio di tutto questo un’esplosione.
Quel casolare appena esploso è in realtà il laboratorio della Greenvest – una sorta di miracolo: c’è chi trasforma l’acqua in vino, e chi i casolari in laboratori aziendali per la lavorazione della cannabis legale. Miracolo instabile, che poi esplode.
Quell’anno, in Italia, sono morte sul lavoro milleduecentoventuno persone. Ecco un altro miracolo sbilenco: il lavoro che non ti aiuta più a sopravvivere, ma a morire. E quindi buone ferie.
FLAVIO VILLANI
(Passeggiatore brutalista)
Estate 2003. Roma. Fumavo Diana rosse morbide e giocavo a Championship Manager, Baldur’s Gate e Civilisation. A colazione leggevo I grandi classici Disney. Mio padre ebbe un infarto dopo una partita a calcetto. Io mi beccai un’otite, superai il penultimo esame solo al terzo tentativo, mi lasciò la donna e partii per la Finlandia a fare la tesi. Tutto in quest’ordine, almeno credo. Fu un’estate molto calda.
Nel 2003 la fine del mondo non si chiamava più buco nell’ozono e non ancora cambiamento climatico, ma riscaldamento globale. Globale è la parola che incarna quei tempi e già allora conteneva più angosce che speranze.
Estate 2008. Helsinki. Avevo smesso di fumare e lavoravo a un progetto di architettura di cui ogni giorno parlavano i mediafinlandesi. Leggevo Dostoevskij e Borges. Ero sposato, ma non ancora padre. Piovve così tanto e senza interruzioni, che non misi fuori i mobili da giardino. Fu un’estate molto fredda.
ROBERTA RUBINO
(Creatura mutevole)
Le otto e trentacinque. Eccoti in balcone sulla sedia pieghevole, la tazzina in mano. Si respira ancora, hai la pelle del petto appena lucida in mezzo ai peli.
Ogni minuto che passa, la linea luce-ombra si avvicina ai tuoi piedi nelle ciabatte Arena.
Accendi una sigaretta e la lasci lì appesa. Con la testa un po’ china guardi il sole già arrivato al basilico secco. O guardi oltre le sbarre del balcone?
Dal dirimpettaio c’è il cane che sonnecchia a bocca aperta… ha un ciuffo di pelo sugli occhi che fa su e giù col fiato, preciso a quello del parrucchino dello zio Tano quando dormiva sull’amaca tra gli allori. Lo zio Tano, buonanima…
Si chiama Paco il bastardello… avevi un cugino Paco, quello mezzo sudamericano che quando vi beccavano a rubare i gelsi partiva a razzo e ti lasciava indietro…
Il solo pensiero ti fa sudare.
Te li mangeresti due gelsi. Non li trovi manco a peso d’oro.
Schiacci la cicca. Alzi le chiappe umide. Hai le cosce rigate. Chiudi vetri e persiane. Accendi l’aria condizionata.
LINDA FARATA
(Fine umorista)
Spesso penso al vento. Se i non-luoghi sono spazi dove transitiamo senza sviluppare senso d’appartenenza, allora il nostro è un non-mondo per il vento. Ma la teoria dei non-luoghi è viziata perché include i supermercati. Spesso penso al vento e ancora più spesso penso ai supermercati. C’è qualcosa che li accomuna: una sospensione dell’essere. Nettuno e Saturno sono detti “giganti azzurri” perché sono giganti e azzurri. Entrambi sono freddissimi e composti in parte di ammoniaca. Ma mentre Saturno è immobile, liscio e ghiacciato, Nettuno è un delirio di vulcani di neve e geyser di cenere. Ma soprattutto, i venti che soffiano su Nettuno sono i più forti di tutto il sistema solare. Mi chiedo come dev’essere, starsene sulla superficie di un gigante azzurro a farsi strappare la carne del vento. Mi chiedo se sia ciò che intendono quando parlano di Dio. E mi chiedo se Dio sia quella cosa che sento battere oltre il vetro appannato, sotto le luci al neon, nel reparto surgelati del supermercato.
LUCIA CONTI
(editrice, pugile dilettante, cluster C)
Estate è una parola che può abbinarsi facilmente alle Balene che possono volare, quando parti per l'Indonesia e ti porti dietro un libro della collana curata da Mattia Grigolo, ma prima ti immergi nei suoi ricordi e in una fanzine che sembra uscita dritta dagli anni novanta. Sono decisamente estivi, gli anni novanta. Non nel senso dei Beach Boys, ma in quello di "Black Hole Sun", con quel sole in grado di incendiare tutto, soprattutto le buone intenzioni.
Sulla copertina della fanzine c'è un tipo che esibisce le natiche nude e anche questo, ne converrete, è materiale rovente. Nel senso di hot stuff e in questo caso "Wanna share my love with a warm blooded lover" e tutto il resto. Oppure nel senso di una provocazione punk à la GG Allin e allora "There's a war in my head, and I'm your enemy". Ad ogni modo fa caldo.
La mia estate, finora, è stata ugualmente satura: colori violenti, emozioni potenti e disidratazione, flebo di elettroliti e fiori ignoti, king cobra e il silenzio della giungla, pagine sniffate (antico vezzo...) e vulcani attivi, piantagioni di caffè e la luna coricata dei tropici. Ma soprattutto l'accendersi improvviso del ricordo di quando scrivevamo per costruire ponti tra noi e il futuro e alla fine quei ponti li abbiamo attraversati volando.
Come ipotesi folli.
Come cetacei con le ali.
Rigorosamente in fiamme.
ESA RENZI-SEPE
(Ricercatrice)
Il mare è l’unico posto che conosco. Su tutto il resto, non ho granché da dire.
Nonna pulisce una spernocchia con le mani. Trema tutta, ma le sue dita sono chele che staccano la testa alla preda. Il sugo mi schizza addosso.
«Che vuoi fare?».
«Niente», rispondo.
Vedo nei suoi occhi l’estate che finisce; la risacca del mare quando sta per piovere; vedo il tuono che invece delle nuvole mi squarcia il petto. Peró non dice niente: sospira.
In questa casa, che da lontano si vede la gente in spiaggia che mangia le spernocchie come noi, ci sono nata e ci vivo anche se me ne sono andata da anni. La vita qua non accade, perché si mangiano le spernocchie.
«Allora portami al mare», dice.
Pure oggi ha vinto lei. La alzo prendendole il braccio e andiamo dritte verso l’azzurro.
In spiaggia è pieno di gente che fa, e noi non facciamo. Camminiamo zitte, mi curvo appresso a lei, una vita trascorsa a due passi dal mare. Aspetto che lo guardi per bene, poi le dico:
«Andiamo, si è fatto tardi».
«Hai da fare?».
ANDREA CATTANI
(Storyteller & Designer)
Non appena arriva il caldo e l’erba dei parchi si secca, la mia mente torna a quando ero ragazzo.
Passavo l’estate in un paesino di montagna immerso nelle Dolomiti. Ogni estate l’erba dei campi veniva tagliata, fatta seccare e poi raccolta in balle di fieno. Questo era tutto ciò che ci serviva.
La sera infatti, appena si faceva buio, salivamo sulle balle di fieno e osservavamo le stelle.
Riuscivamo a vedere decine e decine di stelle cadenti ogni serata. O almeno così ci sembrava.
Mi ricordo che erano così tante che rimanevo senza desideri da esprimere. Sorrido. Riuscivo a rimanere senza desideri. O ne avevo pochi, o le stelle cadenti erano davvero tante.
Ecco cosa mi ricorda l’erba secca.
Ora, in assenza di stelle cadenti, quando sento odore di erba secca esprimo un desiderio.
Chissà che non funzioni ugualmente.
SILVIA STEFANELLI
(consulente e sovrappensiero)
Il sole ci premeva le teste, rendendo tutto immobile e svuotato. I fabbricati, le strade e le persone.
Con occhi di brace guardavamo gli ultimi istanti di vita di una lumaca appena schiacciata, senza provare compassione.
La noia entrava nelle nostre case ogni domenica pomeriggio, cosí ci trascinavamo nel cortile a scoprire quel mondo letargico, delimitato dai muri scrostati dei palazzi e un cancello in ferro battuto fra i cipressi alla fine del viale.
Non c'era tempo, solo la lunghezza infinita di ogni attimo che contiene l'estate.
Sapevamo essere spietate, come ogni nostra coetanea, verso varie forme viventi che entravano per caso nei nostri giochi. Amavamo annientare i ragnetti rossi che si annidavano sotto le scale, tra gli stipiti delle porte, negli angoli dei balconi.
Aspettavamo la sera con la ferocia che ci era stata tramandata dalle nostre madri, attaccata alla nascita come un bollino per distinguerci. Era il segno indelebile del nostro stare al mondo dentro le mura proletarie.
Non c'era spazio, perché nulla era definito, e un tronco poteva diventare ristorante e un cespuglio: casa.
MAURO MONDELLO
(Ammiraglio Ginostra e Sócraters Sampaio)
Ho il sudore che mi cola sulle braccia. Scende lento, caldo, umido, inesorabile, verso il palmo delle mani. Non posso fare niente per fermarlo. Lo sento dietro la schiena, mi inzuppa la maglietta grigia con la faccia di Bob Hoskins e arriva fino alle caviglie in una scia bianca, come di sale che sgocciola al caldo, sembra crema solare passata male. La faccia tutta rossa, piena di piccoli puntini d’acqua, sembra un intingolo. Vado a mettere il cuscino nel congelatore. Mi stendo per terra e cerco il fresco delle mattonelle, il filo di aria calda che circola basso, appena sopra il pavimento. Ilaria è ferma sul divano e fuma una Multifilter dietro l’altra. Guarda alla televisione un film con Ornella Muti a Budapest che insulta Carlo Verdone, beve caffè pieno di zucchero e accarezza Attentialgorilla, il gatto. C’è un odore di pesce stocco e sigarette spente e lettiera che da una settimana nessuno ha cambiato e di divano senza lenzuola bianche a coprirlo, come fanno a casa di mia nonna, e di sabbia che è rimasta sulle ciabatte dopo essere andati al mare e di bagnoschiuma Pino Silvestre. È l’odore dell’estate.